Vetrina Festival: Carla Fasiello e Hristo Vatev, “L’ ultimo istante”

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Pagine scelte da “L’ultimo istante”

L’ultimo istante

Mi fermo a cercare l’ultimo istante della mia esistenza passata.

Frugo nella mente – sembrava fosse accaduto ieri, sembrava non dovessi mai aver bisogno di ricordare, tutto troppo forte, memoria di un giorno infinito – eppure! Ora mi fermo a cer­care l’istante.

Era un giorno qualunque, ricordo la paresi, ricordo gli eventi, ma non fu quello. Non fu lo sguardo impotente dell’uomo che era al mio fianco e non volle capire. Il pronto soccorso, il neurologo che mi parve bizzarro. Che risonan­za ebbe nel pensiero l’urgenza della risonanza, io, sempre poco attenta ai segnali del mio corpo, sempre troppo presa nel rincorrere il tempo, dovevo fermarmi, il tempo di una riso­nanza.

No! Non fu allora. Ero dal mio medico per sbrigare la faccenda, perché passasse la paresi che rallentava il tempo. Lo guardai negli occhi, decisa, come sempre, gli chiesi.

Fu quello l’ultimo istante, l’ultimo sguardo della mia esistenza passata, mi fissò e disse: Sclerosi Multipla.

Fu quello il primo istante. – Frugo nella mente – ricordai quel ragazzo cui mai avevo dedicato il tempo di un sorriso, lui, impacciato nei mo­vimenti, troppo lento nel parlare perché io po­tessi ascoltare, era finito sulla sedia a rotelle. Mantenni lo sguardo del medico, fu lui a di­stoglierlo, lasciando che l’angoscia colmasse i miei occhi di lacrime, dilagasse sul volto. Il tempo si fermò per un istante, il cuore stesso si spense, l’impercettibile momento in cui un sof­fio ti coglie e inatteso, volta le pagine della vita. Inconsapevole, stavo partorendo la mia nuova esistenza nel dolore, il primo gemito furono inarticolate domande, sulle labbra comparve un sorriso amaro, reso beffardo dalla paresi che rendeva deformi i lineamenti sinuosi. Pro­vai ad ascoltare, annegando nel dolore non compresi, non potevo, erano i primi istanti di un giorno infinito, lungo il tempo necessario per interrogarsi e capire.

Sesso, amore e SM

Discorrere ore e ore, e poi giorni e il tempo ri­prende il fluire lento.

Quando era cessato il tic tac monotono dell’orologio? Quale immagine eri intenta a cogliere nello specchio delle emozioni spente? Dove eri andata quando il tuo corpo si dime­nava come fiera in gabbia? Eri tu che avevi posto paletti per renderti prigioniera del tuo male o gli altri a vederti già incatenata a una sedia a rotelle, impotente nel corpo e sconfitta nell’animo? Perché accadde? Forse il grido di dolore è così forte da lasciar soccombere il desi­derio? Forse un corpo ferito non brama una carezza? Labbra solcate dal sorriso beffardo del male non attendono che un bacio ne disseti l’ardore? Forse un fisico debole e insicuro non vuole gustare la gioia del piacere e ritrovare la consapevolezza della sua capacità di amare? Niente è più sferzante di uno sguardo compas­sionevole che già ti ha incatenato a una sedia, che osa pensare che un corpo seduto sia privo del diritto di godere, niente è più umiliante di chi già è pronto a guardarti dall’alto della sua salute mentre ti concede briciole di amore. Vorresti fermare il tempo, fuggire e ti accorgi di essere prigioniera della tua malattia, esposta alla berlina come fiera in gabbia. E poi … il tuo corpo sceglie di affrontare la belva del male e si interroga se gli è concesso di vive e amare.

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