Vetrina Festival: Massimo Perego, “Fuori di patria”

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Dal romanzo “Fuori di patria”, Massimo Perego

Giunsero a Makthar prima di pranzo, l’esule venne accolto con gran riguardo dal padre di Ahmed e ricambiò con formale cordialità, esprimendosi in un arabo ancora acerbo di vocaboli ma corretto nella pronuncia. Ahmed li osservò curioso ma fu come assistere all’incontro di due pianeti incompatibili, si avvide immediatamente che non c’era altra strada che affiancare il siciliano a Chadi. Sbrigarono rapidamente le operazioni di carico, mettendo le munizioni in ceste per olive in cui erano stati ricavati ampi doppifondi. Pranzarono con datteri e formaggio acido di capra, poi trascorsero il pomeriggio sdraiati a chiacchierare sotto il portico.
“Quindi sei italiano… ne ho visti passare avanti e indietro parecchi durante la guerra, quando ero bambino. Venivate trattati a sputi in faccia perché arrivavate sempre dopo che i tedeschi avevano incattivito il nostro popolo, faticavate a farvi rispettare. Anche i vostri generali erano malvagi, ma la truppa li obbediva malvolentieri. Adesso è uguale, i tedeschi decidono per l’Europa e voi mangiate gli avanzi, gli tenete pulite le strade sporcando le vostre coi pagani dell’africa. I politici italiani hanno svenduto la nazione per farci un guadagno da mentecatti, per la pensioncina sicura. A forza di azzannarsi per gli ossi buttati sulla strada non hanno saputo mettere becco in quello che altri decidevano sulla Libia, consegnandola al caos.”
Ahmed si allarmò, sapeva che Tano possedeva un carattere sanguigno, che poteva talvolta esplodere senza preavviso.
“Padre, che sono questi discorsi rivolti a un ospite. Vedi bene come si impegna per avvicinarsi alla nostra cultura, studia la nostra lingua, frequenta la moschea. Presto Gaetano sarà uno di noi. Anche lui ha cercato di opporsi alla sporcizia della sua Italia, ha combattuto e tornerà a farlo se occorre.”
Tano aveva ascoltato attento, ma la sua espressione non mostrava rabbia crescente. Anzi, aveva presto ingentilito le labbra e s’era adagiato più comodamente sui cuscini del portico.
“Ho ascoltato parole dure ma vere. Ci ho provato a fare la mia parte affinché qualcosa cambiasse, ma ho combattuto i mulini a vento. Però vi dico di non confondere lo Stato con la nazione, chiamando entrambi Italia. Abbiamo di nuovo una guerra civile in corso, che non si combatte più fra parti contrapposte. Ora è come se lo scheletro facesse guerra ai muscoli, come se la testa fosse nemica del cuore. Non ci sarà una parte che vince e una che perde, ci sarà la distruzione del campo di battaglia su cui entrambe vivono! I nostri capi… hai ragione a chiamarli mentecatti. Per rimanere più tempo al trogolo di Roma hanno ricacciato ai margini i più deboli fra i loro concorrenti, li hanno relegati al parlamento europeo. Costoro non hanno compreso tre cose: la prima è che per capire che cosa si discutesse occorreva almeno conoscere le lingue straniere, la seconda è che poco per volta le discussioni incomprese sono divenute decisioni dannose subite, la terza e più grave è che non hanno neppure capito che questo sistema è un gioco di parti fra le quali la concorrenza è feroce. Naturalmente il nord Europa si è coalizzato per indebolire il concorrente meridionale. Per l’invidia del sole ci hanno legato le mani con l’euro, con le merci straniere senza dazi, con l’impoverimento dell’economia vera.”
Tano aveva parlato di getto, ma la voce calma aveva giocato un effetto di maggior enfasi sui suoi interlocutori, che ascoltavano attenti e persino stupiti della profondità del tono e degli argomenti. Tano portò lo sguardo alla lontananza cerulea del deserto, poi riprese.
“E’ come se ci fossero due ovili, entrambi accuditi da una famiglia di cinque persone dedite al pascolo, alla mungitura, alla preparazione della cagliata e alla stagionatura, anche alla tosa della lana. Tutti compiti equamente distribuiti su genitori e figli. A un certo punto una delle due famiglie, quella più vicina alla città ed esposta alle sue lusinghe, decide che la vita è monotona, decide che è meglio se la moglie impara qualche nuova ricetta e si iscrive a un corso di cucina. Poi si pensa ai figli ovviamente, va bene che aiutino il padre ma solo per due ore al giorno. Nelle altre è opportuno che vadano in piscina, che studino le lingue, altrimenti crescono come bifolchi. Insomma, a farla breve, dopo poco nel secondo ovile le pecore non sono più accudite, non c’è tempo di mungerle ma la madre ormai vuol far pratica dei manicaretti insegnatile, quindi è lieta di macellarle quando hanno le carni tenere. Rimane solo metà del gregge e il padre pretende che la vendita di metà formaggi e metà lana sia sufficiente a mantenere i cinque con le loro spese aggiunte. Prova a raddoppiare il prezzo e perde tutti i compratori, allora riduce il prezzo ma non guadagna abbastanza. Fa debiti col padrone dell’ovile confinante. Passa poco tempo e deve vendere il suo gregge per un’inezia, il debito rimane pesante e deve richiamare la moglie e i figli a lavorare tutto il giorno alla mungitura e al resto. Ma non lavorano più per sé, ormai lavorano per il vicino.”
Tano fece una seconda pausa, portò lo sguardo su Ahmed e il vecchio che lo ascoltavano tesi, consci dello struggimento del siciliano.
“Questo è successo in Italia, ma ancora non lo si è capito. Con l’aggravante che lo Stato, che dovrebbe essere la mente pensante, è divenuto il parassita della nazione.”
Ahmed provò a rincuorare Tano.
“Vedrai che col tempo le cose si aggiustano.”
“Col tempo tutto è peggiorato, ci si sarebbe dovuti ribellare prima. Ormai proprio i traditori della patria che ci hanno venduto all’Europa hanno i massimi riconoscimenti e onori. Perché sono proprio loro i primi a non aver capito cosa succede, sono colpevoli sia chiaro. Colpevoli di rubare a minchia piena, ma anche ignoranti come bestie perché segano il ramo su cui sono seduti. Manca poco perché tutto crolli.”
Il padre di Ahmed porse a Tano alcuni datteri e disse.
“Tu sei un buon italiano!”

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