Il Linguaggio dei comuni mortali

Ferdinand de Saussure

IL LINGUAGGIO DEI COMUNI MORTALI

Quando si prende in mano la penna per scrivere, ovvero la tastiera del computer, ci si dovrebbe domandare perché lo si fa, ovvero chi è uno scrittore, in tempi di koiné delle piccole cose di pessimo gusto, sovente dello sguaio per catturare l’attenzione di facebookers e twittatori, che guardano il mondo dal rettangolo di uno smartphone, per farsi ingannare.
In arte, un’arte ormai simulacra (dopo decenni di cultura di sinistra) questa è ancora l’epoca del nazional popolare, che una volta significava democratico; mentre oggi che la democrazia è liquida, come i partiti, la società e in prospettiva lo Stato, del concetto di nazional popolare ci rimane un precipitato di banalità, retorica, conformismo global-local, un popolare privo di radici etniche e storiche, dunque incolto (temuto da Pasolini).
La letteratura, ridotta a narrativa si è soltanto involgarita, ha perso ogni orizzonte che non sia quello indicato dai mass media, compreso il cinema. Quel che è peggio, si sono uniformati i temi (la violenza sulle donne, i bambini, le minoranze, gli immigrati, ora il revival ecologico, salviamo il pianeta, etc.) in ossequio a un’ideologia non formalizzata (in una cultura liquida non si formalizza più niente) che proprio per questo permea ogni conato espressivo e si pone come inconfutabile, pena l’emarginazione.
Ci si domanda allora, che fine ha fatto quella meravigliosa lezione del glottologo, che distingueva la langue dalla parole, intendendo che lo scrittore è quell’elaboratore di espressione e inventore di realtà che ha nel linguaggio personalizzato (la parole) diverso da quello comune (la langue) il suo strumento più alto, ciò che lo rende appunto uno scrittore, un artista? Nella lingua che si usa c’è già un mondo, e nell’arte questo mondo non può essere pari pari quello quotidiano, senza il filtro illuminante della creatività, che è rottura di ogni conformismo.
Perché bisogna scrivere male, per essere letti, o al meglio, perché sottoporsi a degli standard (di cui si è detto sopra) secondo il diktat delle case editrici? Od anche, ne vale la pena, per un momento di notorietà effimera o comunque priva di valore? La risposta è no. Ed ecco infatti l’aneddoto: passeggiando su internet ci è capitato di imbatterci in alcune recensioni dedicate ad alcuni scrittori italiani in voga, tradotti naturalmente in altre lingue. Leggetele, perché offrono delle sorprese confortanti. Citiamo, senza fare nomi (per cautela e per pietà dei noti autori recensiti); due articoli, letti su Amazon, scritti da due critici letterari britannici, su due diversi quotidiani, uno inglese, l’altro irlandese. “Questa scrittrice si distingue per sapere scrivere con una onestà alla quale coniuga, anche in questo romanzo, la capacità di rassicurare”. Ora, quando un critico letterario parla in questi termini è un brutto segno, perché onestà e rassicurazione non sono categorie estetiche, ma morale la prima e psicologica la seconda. Per cui, nel linguaggio cifrato della critica letteraria, onestà va intesa come mediocrità e essere rassicurante, come un traslato che vale mancanza di fascino, incapacità di intrigare il lettore. Nella seconda recensione, una esperta irlandese scrive della stessa scrittrice (celebrata in Italia) “anche questo romanzo, come gli altri romanzi di (omissis) si fanno amare e non c’è bisogno di aggiungere altro. E un’autrice di talento”. Un giudizio così sommario, anzi evasivo, rende perlomeno perplessi.
Chiunque legga un libro e ne rimane favorevolmente colpito sente il bisogno di dire come e perché. Ma quel  “non c’è bisogno di aggiungere altro,” quando non si è detto nulla è un giudizio davvero allarmante e sa di implicita, inconfessabile, stroncatura. Significa “questo romanzo per me non ha rilevanza alcuna, né sul piano letterario né su quello narrativo, perciò io lo liquido con un generico “è un’autrice di talento”, per non guastarmi le relazioni con l’editore inglese o irlandese. E ci sono poi le recensioni dei critici professionisti, a pagamento, giacché le vie dell’abiezione e dell’umiliazione sono infinite.
Che cosa vogliamo dire in conclusione? Che il successo di un libro, come di un film, o di altro prodotto artistico (e non) viene fabbricato a tavolino, con denaro sonante profuso nei canali di distribuzione e dell’informazione. La qualità intrinseca dell’opera è irrilevante; l’importante è vendere e far credere -alla gente ignara- che quello è il miglior prodotto sul mercato. Trattandosi di narrativa, il fatto è particolarmente deprecabile perché l’inganno è perpetrato servendosi del linguaggio comune, dei comuni mortali appunto, i quali, come si sa, così facilmente credono alle parole.

Adriana Zanese

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