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Introduzione
“Solo 3 cose sono certe: la morte, le tasse e la paura di tutte e due.”
Woody Allen
Che cosa è la morte? L’umanità si è posta da sempre la domanda, ma ancora non ha trovato una risposta. Almeno non una che metta tutti d’accordo. Qualcuno l’ha definita l’ultimo tabù sociale, ci affascina sugli schermi, molto meno se non per nulla quando si passa sul piano personale. Lo stesso dirlo fa paura e se siamo costretti si preferisce farlo in termini impersonali: si muore, o usando metafore: se n’è andato, è partito, ha chiuso gli occhi…. Il Dalai Lama dice che si ha paura solamente di ciò che non si conosce, ma si può conoscere la morte?
Che non sia la fine di tutto, ma che ci sia una componente immortale nell’uomo, chiamala anima, spirito, psiche, o come usa oggi “coscienza” che in qualche modo sopravviva, è nel cuore dell’uomo fin dall’inizio della sua avventura su questa terra.
“Quando il mortale spira, dov’è?” Si chiedeva Giobbe nel VI secolo a.C. e andando molto più indietro, dagli studi condotti da archeologi francesi e americani a La Chapelle-aux-Saints, nella Francia sudoccidentale, sembra che già l’Uomo di Neanderthal, vissuto in questa parte d’Europa circa 50.000 anni fa, seppellisse i propri defunti, forse, ma non lo sappiamo con certezza, all’interno di un accompagnamento solenne e rituale da questo mondo all’altro……. Cerimoniali funebri sono venuti alla luce un po’ovunque negli scavi condotti in varie parti del pianeta e se a questo sommiamo i miti legati ai cicli di vita, morte e rinascita, viene fuori che dare un senso alla morte oltre che alla vita è una sfida che ci portiamo dietro da sempre e da sempre incide e modella le nostre esistenze, oltre che l’arte e le scienze.
Che la vita possa andare avanti dopo la morte, è oggi più che mai argomento di ampio dibattito. La stessa parola “sopravvivenza”, va però chiarita, perché se da una parte significa continuare a vivere, dall’altra può alludere al vivere a malapena, maluccio. Bisogna dunque subito stabilire quali caratteristiche deve avere la vita che continua, per essere appetibile. Il primo requisito non può essere che il seguente: io devo rimanere io. Non è un inno all’egocentrismo, ma la pura costatazione di un principio di base piuttosto ovvio: se io non ci sono, il resto non c’è, almeno non per me. Il presupposto dell’essere cosciente è di esserlo innanzitutto di me stesso, perché solamente da me e solo attraverso di me tutto assume un significato.
In un’intervista al New York Times: How Long Do You Want to Live? del 25 agosto 2012, il dr Felipe Sierra, direttore della divisione di biologia dell’invecchiamento presso il National Institute on Aging, dice di aver condotto, durante le sue conferenze sulle tendenze future della bioscienza, un sondaggio informale che alla fine aveva comunque coinvolto circa 30.000 persone. All’inizio di ciascuna conferenza chiedeva ai presenti in sala quanto a lungo avrebbero voluto vivere e per facilitare la raccolta delle risposte, aveva fornito quattro possibilità: 80 anni, la durata media attuale della vita in Occidente; 120 l’età massima raggiunta ad oggi da qualche campione di longevità; 150 l’età ipotizzata dalle più recenti scoperte in campo medico e farmacologico, oppure per sempre. Con sua grande sorpresa il 60% aveva detto di preferire l’attuale età media di 80 anni, il 30% andava per i 120 e solo il 10% si spingeva sui 150. Un pallidissimo 1% dichiarava di accarezzare l’idea di non morire mai.
La scelta era dettata soprattutto dalla paura di vivere tanto, ma non al meglio, nessuno guardava infatti di buon occhio la prospettiva di una vecchiaia senza fine, o l’idea di una vita artificialmente prolungata.
Vivere è un desiderio e una necessità innata, ma a patto di vivere bene, di mantenere intatte le proprie capacità psico-fisiche, di essere lucidamente responsabili di quello che siamo, facciamo e pensiamo.
E non solo, deve andare avanti verso qualcosa di nuovo, fare le stesse cose sempre ogni giorno, allo stesso modo, più che una fortuna è percepita come una maledizione, come dimostrano bene quei romanzi, o quei film in cui per un qualche incantesimo il protagonista viene condannato a rivivere d’accapo lo stesso giorno. Persino le gioie della vita quelle con la G maiuscola diventerebbero pene, il pianto di felice commozione della Miss appena eletta si trasformerebbe ben presto in un singhiozzo disperato, la sposa finirebbe con l’odiare il suo bel vestito bianco e il cibo più amato una tortura da mandare giù. Tutto diventa insopportabile quando si ripete nello stesso identico modo. Altrettanti pochi sono attratti dall’idea di una noiosissima eternità fatta di nuvole perennemente bianche, arpe e cori angelici. Qualcuno ha detto: “Almeno mi fossi portato qualcosa da leggere!” Per questo fioriscono le battute di chi afferma con baldanza di preferire l’inferno con le sue “allegre combriccole”. Simpatica prospettiva, se non fosse che le poche, o tante persone che hanno avuto la ventura di vedere qualcosa dell’inferno lo raccontano in ben altro modo, quando non tacciono del tutto.
I racconti sull’aldilà hanno da sempre accompagnato il genere umano, ma è innegabile che solo recentemente le NDE, acronimo di near death experiences, li hanno portati all’attenzione del grande pubblico. La traduzione letterale è: esperienze vicine, o prossime alla morte, ma non è da prendere alla lettera. Curioso poi il fatto che la base di ripartenza dell’interesse per questo argomento non venga dalla filosofia e nemmeno dalla teologia, ma dalla scienza….
Le NDE sono emotivamente coinvolgenti, hanno molto in comune con le esperienze mistiche, perché entrambi sembrano rompere, o almeno sollevare il velo per andare a guardare nella profondità dell’essenza della vita. Le esperienze mistiche sono meno comuni delle NDE, almeno oggi che di NDE si parla tantissimo e se ne raccolgono ovunque in tutto il mondo, ma non sono nemmeno così rare. Chi non ha avuto né l’una, né l’altra, cioè la maggioranza di noi, le classifica spesso come “soprannaturali”, nel senso di poco o per nulla attinenti a questa realtà. Chi le ha vissute le descrive all’opposto, come l’improvvisa scoperta di cosa sia davvero la realtà. La sensazione più forte e ricorrente che viene fuori dalle loro testimonianze è infatti proprio quella di venire a contatto con la natura stessa della realtà e della vita. Tutti ne escono profondamente trasformati, scompare la paura della morte e al tempo stesso la vita acquista più valore. I ricordi dell’esperienza vissuta sono generalmente molto vivi e duraturi nel tempo. Condividono anche la difficoltà a raccontarle, sono ineffabili, indicibili. Non perché non si voglia, ma perché non si è capaci. Per quanto facciano del loro meglio è difficile descrivere qualcosa che non ha niente di equivalente con ciò per cui il nostro vocabolario è strutturato: “Non era proprio così, ma questo è quanto di più simile riesco a trovare”, è una delle frasi che ricorrono più spesso. Eppure per quanto frammentari e limitati, i loro racconti alla fine riescono a dare un’idea abbastanza univoca, almeno a grandi linee, di cosa sia una NDE, o un’esperienza mistica. E paradossalmente hanno più senso se non cerchi di spiegarle troppo, se non tenti a tutti i costi di farle rientrare nei parametri del nostro modo di pensare, se ti lasci trasportare sul loro piano invece di pretendere di portarle sul nostro.